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Franco Riboldi -
Uno dei farmaci più discussi nel mondo della medicina è il metadone. C’è chi lo considera un’”ancora di salvezza”, chi una “droga di stato”, chi una semplice “stampella”. In realtà numerosi studi, confortati dalla pratica clinica, dimostrano la grande utilità di questo farmaco nel trattamento della dipendenza da oppiacei (oppio, eroina, morfina). La persona che lo assume in modo corretto, in integrazione con adeguati supporti psicologici, sociali ed educativi, riesce a staccarsi dall’eroina e a condurre una vita pressoché normale. La linea di demarcazione tra l’uso di questa sostanza come farmaco o come droga è però alquanto indefinita ed è abbastanza facile "sconfinare". Con questa affermazione non si fa riferimento all’uso illegale di metadone (peraltro in continua espansione), quanto al possibile passaggio dal "trattamento sostitutivo" alla “dipendenza iatrogena” (indotta cioè dalla terapia stessa). Anche se la dipendenza da metadone può apparire come una terapia sotto controllo o, al limite, come “male minore”, una dipendenza è sempre una dipendenza e non si può dire che questa sia migliore delle altre. Un trattamento "a mantenimento" con metadone, anche se condotto in modo esemplare, ha comunque ripercussioni negative su autonomia e autostima. Il medico che gestisce questa delicatissima terapia dovrebbe avere sempre sotto osservazione i fattori più critici nel determinare dipendenza: il dosaggio del farmaco e la durata del trattamento. E’ noto a tutti che le case farmaceutiche (e gli studi scientifici da queste commissionati) spingono per alzare sempre più i dosaggi delle terapie sostitutive e per protrarle nel tempo, ma un utilizzo corretto (sia scientifico che etico) del metadone non dovrebbe mai portare ad una stimolazione eccessiva del centro di gratificazione. l dosaggio efficace non è quello che satura tutti i “recettori”, ma quello minimo sufficiente per non stare male. Quando una persona non avverte più i morsi dell’astinenza può benissimo collaborare con chi ha a cuore il suo problema e riprendere in pugno le redini della propria esistenza. Che senso ha “anestetizzare” il suo coinvolgimento personale inondandolo di metadone? Si sostiene che un dosaggio troppo basso non permette di staccarsi dalla droga, ma in realtà non è il metadone che opera questa separazione, o quanto meno non è solo quello.
Ciò che porta ad agire è il desiderio di cambiamento, è la crescita della motivazione. E’ questa che bisogna coltivare e valorizzare. Un seme così prezioso ha bisogno di tempo per svilupparsi e il metadone serve giusto a questo. Ma non bisogna esagerare, questo farmaco agisce sul cervello esattamente come qualsiasi altra droga: stimola intensamente il centro del piacere e produce dipendenza. Ecco perché oltre al dosaggio, anche il tempo diventa una variabile strategica. Più questo passa e più la dipendenza dal farmaco si consolida e diventa “parte integrante” dell’individuo. Per non passare quindi da una “trappola” all’altra conviene porsi dei limiti temporali oltre i quali è bene non andare. Indubbiamente è il medico, insieme alla propria equipe, a stabilire questi limiti, sulla base delle valutazioni diagnostiche e degli obiettivi specifici che si pone, ma anche il paziente ha un potere decisionale in tal senso. E’ lui che vive sulla propria pelle il peso di questa esperienza e ha tutto il diritto di esprimere un parere sulla sua durata. Spesso chi cura tende a focalizzare la propria attenzione sulla risoluzione del “sintomo” (inteso come utilizzo di eroina) e quando questo regredisce si ritiene abbastanza soddisfatto del proprio lavoro. Difficilmente rischierà di smuovere un paziente “stabilizzato”, che di par suo si fida del proprio curante e accetta ben volentieri un farmaco che tutto sommato “fa star bene” . Ma da questo circolo vizioso può nascere una dipendenza ancora più tenace e difficile da risolvere di quella di partenza. In modo diverso, forse meno rischioso ma comunque pesante, tutta la vita finisce con l’esserne condizionata. Doversi confrontare ogni giorno con questo bisogno prioritario, con l’etichetta di terapia, senza immaginare nemmeno lontanamente una meta da raggiungere, porta alla convinzione della "malattia inguaribile". Convinzione assolutamente non vera e fortemente demotivante. Come uscire da questa trappola col “camice bianco”? La prima mossa da fare è senz’altro quella di aprire un dialogo positivo col proprio medico. E’ una figura questa troppo importante per non essere presa seriamente in considerazione. Occorre conoscere i suoi obiettivi terapeutici e confrontarli con le proprie aspettative. Occorre rapportarsi periodicamente e verificare insieme a lui i successi ottenuti. Come il medico non dovrebbe mai lasciar “stagnare” la terapia così il paziente dovrebbe trasmettergli continuamente desideri di risoluzione e segnali di cambiamento. Quando c’è questa stretta collaborazione tra medico e paziente e la terapia è sostenuta da tutti gli aiuti necessari (psicologici, sociali ed educativi) difficilmente il metadone sfugge di mano. "Le dipendenze non hanno tempo, ma il tempo che abbiamo da trascorrere non è infinito…."